- La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella causa Wightman e a. contro Secretary of State “for Exiting the European Union
- La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (d’ora in avanti “la Corte”) nella causa Wightman e contro Secretary of State “for Exiting the European Union”1 ha stabilito che, dal punto di vista squisitamente giuridico [di diritto dell’Unione europea (d’ora in avanti “diritto UE”)] il Regno Unito è libero di revocare unilateralmente la notifica della propria intenzione di recedere dall’Unione europea. Una simile revoca, decisa nel rispetto delle norme nazionali di rango costituzionale, avrebbe come effetto, ove attuata, che il Regno Unito resterebbe nell’Unione a termini invariati quanto al proprio status di Stato membro. Ancorché il Regno Unito abbia notificato all’Unione la volontà di recedere attivando la procedura ex art. 50 TUE2 in esito al referendum del 23 giugno 2016 nel quale la maggioranza dell’elettorato britannico si è espressa a favore dell’uscita (c.d. “Leave”).
La sentenza trae origine da un ricorso presentato da alcuni membri del Parlamento del Regno Unito, del Parlamento scozzese e del Parlamento europeo alla Court of Session [Corte Suprema civile (Scozia, Regno Unito)] al fine di far accertare se, prima della scadenza del termine di due anni prevista dalla norma, la notifica di cui all’articolo 50 TUE possa essere unilateralmente revocata con la conseguenza che il Regno Unito possa restare nell’Unione.
Il 3 ottobre 2018, la Court of Session ha sottoposto una questione pregiudiziale ex art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) alla Corte di giustizia, precisando che una sua risposta consentirà ai membri della House of Commons (Camera dei Comuni) di sapere, al momento di pronunciarsi sull’accordo di recesso, se esistano non due, bensì tre opzioni applicabili alla fattispecie, vale a dire: a) il recesso dall’Unione senza accordo (c.d. “no deal”), b) il recesso dall’Unione con un accordo, ovvero, c) la revoca unilaterale della notifica dell’intenzione di recedere e quindi la permanenza del Regno Unito nell’Unione.
Attesa l’urgenza insita nella sua domanda, in considerazione dei tempi stretti e, in particolare, del fatto che l’accordo di recesso deve ottenere l’approvazione del Parlamento del Regno Unito giacché stabilisce le regole applicabili alle future relazioni del Regno Unito con l’Unione, la Court of Session ha chiesto l’applicazione
2 Art. 50 TUE: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49”.
del procedimento accelerato3, richiesta che il Presidente della Corte di giustizia, sentiti il giudice relatore e l’avvocato generale, ha accolto con una propria ordinaza datata 19 ottobre 2018.
Ricordo che il procedimento accelerato – da non confondere con il procedimento d’urgenza – consente alla Corte di giustizia di pronunciarsi più rapidamente rispetto al procedimento ordinario laddove la natura della causa richieda un suo rapido trattamento.
- Due valutazioni preliminari da fare una più politica l’altra squisitamente La prima riguarda il connotato politico e storico della questione. La notifica del Regno Unito ha dato avvio, per la prima volta nella storia della Comunità/Unione europea, alla procedura di recesso, di “uscita”, di uno Stato membro. Come si dirà più avanti, oltre all’importanza dottrinale e pro futuro della questione sollevata, le sue conseguenze pratiche sono innegabili, come lo è la sua incidenza sulla controversia principale.
L’art. 50 TUE disciplina la negoziazione e la conclusione di un “accordo di recesso” tra l’Unione e lo Stato membro nel rispetto della procedura prevista dall’art. 218, par. 3 TFUE4. Tuttavia, in mancanza di un tale accordo, possibilità a tutt’oggi non remota e inverosimile, i trattati cessano comunque di essere applicati al medesimo Stato due anni dopo la notifica, salvo che il Consiglio europeo decida all’unanimità di prorogare tale termine. Poiché il parlamento britannico deve dare la propria approvazione finale, sia se si giunge a un accordo di recesso sia in mancanza dello stesso, vari membri di detto parlamento hanno sostenuto, a ragione, che la revocabilità della notifica dell’intenzione di recedere apre una terza via, cioè a dire, la possibilità di restare nell’Unione a fronte di una “Brexit” non soddisfacente.
Il giudice (scozzese) del rinvio ha condiviso siffatta prospettiva, argomentando che la risposta della Corte, in quanto interprete supremo del diritto dell’Unione, consente ai deputati britannici di avere una visione precisa delle opzioni disponibili al momento di esprimere il loro voto.
La Corte, riunita in composizione plenaria attesa l’importanza della questione, rileva che l’articolo 50 TUE persegue un duplice obiettivo, da un lato, sancire il diritto sovrano di uno Stato membro di recedere dall’Unione, dall’altro, predisporre una procedura ad hoc volta a consentire che tale recesso si realizzi in modo organizzato e composto. Il carattere sovrano del diritto di recesso postula l’esistenza di un diritto per lo Stato membro di ritirare unilateralmente la notifica della sua intenzione di recedere dall’Unione fino a che non sia entrato in vigore un accordo di recesso ovvero, in mancanza, finché non sia scaduto il termine di due anni, eventualmente prorogato dal Consiglio europeo all’unanimità.
In effetti, attesa la novità della questione e il silenzio della norma in tal senso, la richiesta dell’interpretazione (autentica) della Corte è sembrata quanto mai opportuna posto che, se il diritto al recesso è un diritto “istituzionalizzato” dello Stato membro (quantomeno) dopo la riforma di Lisbona 2009, è altrettanto verosimile il corrispondente diritto di riconsiderare l’azione proposta e ritornare sui propri passi, ancorché in una fase intermedia e non a procedura conclusa.
3 Art. 105 Regolamento di procedura della Corte di giustizia. Il procedimento d’urgenza invece è previsto dall’art. 267, 4° co. TFUE e dall’art. 107 del medesimo regolamento di procedura.
4 Art. 218, par. 3 TFUE: “La Commissione, o l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza quando l’accordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza comune, presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione”.
Tuttavia, secondo la Corte5, la revoca deve essere decisa all’esito di un processo democratico nel rispetto delle norme costituzionali nazionali. Ciò perché, se da un lato, al momento della presentazione della domanda di recesso nessuna condizione ulteriore è richiesta, fatta salva la volontà politica del governo, dall’altro, nell’abbandonare la procedura di recesso (in corso) e quindi decidere di rimanere a pieno titolo nell’Unione, non è sufficiente la volontà governativa giacché la Corte richiede il coinvolgimento degli organi della rappresentanza democratica6.
Tale decisione, univoca e incondizionata, dev’essere comunicata per iscritto al Consiglio europeo conformemente alle norme costituzionali dello Stato.
Qualora lo Stato non abbia interrotto la procedura di recesso e pertanto è divenuto uno “Stato terzo” a tutti gli effetti, dovesse ripensarci e chiedere nuovamente l’adesione, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49 TUE senza alcuna eccezione e senza canali privilegiati.
- In conclusione, secondo la Corte, la ratio della sua decisione va ricondotta ai principi fondamentali del diritto dell’integrazione europea; sarebbe contrario all’oggetto dei trattati consistente nel creare “un’Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa” spingere al recesso uno Stato membro che, avendo notificato la propria intenzione di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali e in seguito ad un processo democratico, decide di ripensarci e di revocare la notifica presentata al Consiglio europeo. Sottoporre il diritto di revoca, come proposto durante il dibattimento dal Consiglio e dalla Commissione, a un’approvazione da parte del Consiglio europeo (cioè ad una istituzione dell’Unione), all’unanimità, trasformerebbe un diritto unilaterale sovrano dello Stato membro in un diritto condizionato (dal diritto UE) e sarebbe incompatibile con il principio secondo il quale uno Stato membro non può essere costretto a recedere dall’Unione contro la propria volontà. La medesima volontà politica che lo ha indotto ad aderire ai valori comuni dell’intera Unione europea (art. 2 TUE).
To be continued…
- Felicità vuole dire “Brexit”.
I cittadini britannici sono più felici dei cittadini dell’Unione europea?
I cittadini britannici una volta liberati dal “giogo” dell’Unione europea – quindi diventati “extracomunitari” – saranno più felici dei connazionali cittadini dei singoli Stati membri e per ciò anche cittadini dell’Unione europea?
L’esigua maggioranza dei cittadini britannici che nel referendum del 23 giugno 2016 sostennero che versavano in una condizione di infelicità a causa dell’apparteneza del Regno Unito all’Unione europea riacquisteranno la felicità (ritenuta) smarrita?” “Peraltro, alla luce degli eventi e delle difficoltà del distacco emerse nel corso degli anni della negoziazione di due accordi (internazionali) per una uscita ordinata del Regno Unito dalla UE, crediamo fermamente, che non sono pochi i cittadini britannici che, a tutt’oggi, riconsiderebbero il loro voto. Invertendo, ove consultati nuovamente, l’esigua maggioranza dell’esito del referendum del 2016 che, lo ricordiamo, è stata il 51.9% a favore del “leave” – cioè 17.410,742 voti – rispetto al 48.1% del “remain” –
5 Punto 67 della sentenza.
6 Cfr. M. Puglia, art. 50 TUE, in A. Tizzano (a cura di), Trattati dell’Unione europea, II Edizione, Milano, Giuffrè Editore, 2014, p. 338ss.
cioè 16.141,241 voti. Per non scendere nel dettaglio della tipologia dei votanti in rapporto alle variegate aree regionali e culturali del Regno Unito.
Il lavoro affonda le radici in alcune banali riflessioni fatte prima, durante e dopo la lunga e complessa gestazione che ha portato, dopo più di quattro anni di negoziati e, talvolta, di tragiche votazioni dell’House of Commons (la “Camera bassa” del Parlamento britannico) alla rinuncia del Regno Unito (UK) a far parte dell’Unione europea.
Dal 1951 – data della istituzione della (prima) Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) – primo e unico caso nella storia dell’integrazione europea e, si auspica, l’ultimo, confidando ancora nella bontà del progetto europeo.
Ci siamo chiesti se l’homo europaeus è oggigiorno felice.
Gli europei continentali, i cittadini UE e, soprattutto, le istituzioni UE e i governi degli Stati membri hanno come obiettivo prioritario il raggiungimento della felicità, della “comune” felicità? E, se la risposta è positiva, quale felicità?
Possiamo affermare che l’emozione della felicità – avventura scivolosa ed eccitante al tempo stesso – varia da persona a persona, da luogo a luogo, da regione a regione, da Stato a Stato? Dal che se ne può ricavare che la “buona politica aiuta a raggiungere più facilmente la felicità? E pertanto il diritto, che ne è la sua espressione materiale, tangibile e percepibile, è – o può essere – uno strumento essenziale a tal fine?
Nell’Europa istituzionalizzata dell’Unione europea che, com’è noto, rappresenta un caso pressoché unico al mondo di processo pacifico, costituente e federale tra Stati sovrani (senza l’uso della forza militare) a che punto stiamo?
I cittadini britannici una volta abbandonata definitivamente l’Unione saranno di nuovo “felici e sovrani”, ovvero, più felici, liberi e sovrani di quando erano anche “cittadini dell’Unione europea?
Ergo, semplificando, felicità = sovranità? Quale sovranità? Degli Stati, dei governi e/o dei cittadini?
Riacquistare la sovranità (legislativa/decisionale) aiuta ad essere più felici? E liberi? In un mondo globalizzato e sempre più interconnesso? E di conseguenza: integrazione europea versus felicità/libertà? Quanto alla felicità connessa alla Brexit, occorrerà attendere qualche tempo prima di poter valutare le conseguenze reali e, ai fini del presente studio, stabilire chi sarà più “felice” tra i cittadini britannici e i cittadini europei continentali, ovvero, tra gli Stati membri dell”Unione europea e il Regno Unito.
È ancora prematuro tirare le somme di un divorzio – da qualcuno annunciato già da anni posto che, dopo varie traversie all’interno delle istituzioni britanniche, solo dal 31 gennaio 2020 – vale a dire circa tre anni e mezzo dall’esito del referendum del 23 giugno 2016 – il Regno Unito è uscito (formalmente stante la sua notifica) dall’Unione europea ed ha viceversa iniziato la necessaria procedura del post- recesso che, ove completata, lo porterà completamente fuori dall’UE; e solo allora si potrà ritenere uno Stato sovrano, autonomo e indipendente. Ma è proprio così?
Ciò perché gli esiti del “deal”, come si è visto, non sono stati soddisfacenti e le difficoltà di una completa uscita indolore è stata solo in parte raggiunta, considerata,
come si vedrà, la portata di un accordo di tipo “transitorio” e insoddisfacente per entrambe le Parti. “Tuttavia, e paradossalmente, non vi è alcun dubbio che lo storico recesso del Regno Unito ha costituito nei fatti uno spartiacque – giuridico, politico economico e sociale – sia sul piano nazionale britannico sia su quello propriamente unionale dell’Europa integrata.
Le ripercussioni si avranno anche nella dimensione extra-europea laddove si considerino, da un lato, il mondo sempre più interconnesso e globalizzato, dall’altro, l’export/import di prodotti e servizi “europei” nei/dai mercati mondiali.
La lunga e complessa formalizzazione di Brexit ha mostrato le difficoltà per i governi britannici che si sono avvicendati per realizzare una rapida (e indolore) uscita dall’Unione, posto che il Paese è rimasto diviso – un sostanziale 50% di opinioni divergenti – sin dal referendum del 2016 con almeno la metà dei cittadini britannici (“felici”?) e parte delle istituzioni nazionali (anch’esse “felici” di rimanere nella UE?) a dir poco dubbiosi sulla bontà della scelta referendaria di lasciare l’Unione europea.” “Per non parlare della questione “Scozia”, che da fatto puramente interno al Regno Unito sta diventando una questione europea. Ed inoltre, durante tutta la negoziazione della Brexit (e ancora oggi) la “questione irlandese” è sempre stata il nodo più gravoso e rimane a tutt’oggi una questione ancora non risolta completamente.
Tralasciando altresì la questione “Cornovaglia” – la terra di Re Artù – che da territorio-contea pro-Brexit al referendum del 2016 parrebbe averci ripensato, in quanto, essendo una delle regioni più estreme del profondo sud della Gran Bretagna, arretrata e depressa, necessita assolutamente dei fondi UE anche in considerazione del 55% dei suoi prodotti destinati al’Unione europea, da dove peraltro provengono il 47% delle importazioni.
La tematica della comune felicità nell’Unione europea è collegata con altri valori e principi fondamentali giacché, a nostro avviso e per gli obiettivi che ci si propone, appaiono intimamente collegati – se non addirittura indispensabili – al raggiungimento della felicità, soggettiva ovvero collettiva.
Per ciò che attiene alla scienza giuridica occorre specificare ulteriormente che si prenderà come punto di partenza del presente studio il “right to pursuit of happiness”
– cioè a dire il diritto dell’individuo attraverso la collettività di perseguire la felicità – così come declinato nella già citata formulazione “rivoluzionaria” della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776. Che, va sottolineato, è stata influenzata decisamente nella sua redazione dagli intellettuali, illuministi e filosofi di quel secolo, italiani, europei e quindi americani, in particolare da Gaetano Filangieri, autorevole giurista e intellettuale napoletano, una delle voci più prestigiose della coscienza europea di quegli anni.
Quindi la felicità, individuale e collettiva, come corollario della libertà, della pace e della dignità “attraverso il diritto: Cicerone infatti, occorre ricordarlo, affermava “servi legum sumus, ut liberi esse possimus”.
Sicché, se alla base della scelta dei cittadini britannici è ipotizzabile il trasferimento dei tre valori collegati – “felicità-sovranità-libertà” – dalla dipendenza dall’ordinamento UE e dalle “leggi europee” all’ordinamento britannico, la scelta referendaria vorrebbe significare essere (più) liberi e felici rispetto al diritto UE con il ritorno alla soggezione della (sola) legge britannica ritenuta più confacente e idonea ai bisogni del Popolo di Sua Maestà.
Il che ci fa riflettere su di un punto a nostro parere paradossale: il Regno Unito, a ben vedere, non appare per niente una Nazione coesa e unitaria, con un solo Popolo e una sua identità unica ed indissolubile, bensì rappresenta uno Stato composito costituito da Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord che, quanto a diversità e disparità di storia e cultura, non appare tanto più omogeneo e coeso dell’Unione europea. Sicché, occorrerebbe pensare ad una vita in termini collettivi e non come soddisfazione esclusivamente individuale anche con riguardo al raggiungimento della felicità.
Infatti l’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Da ultimo la guerra Russo-Ucraina ha diviso i cittadini su questo punto. Evidentemente in Europa (dell’Unione europea) lo “stare insieme” – da circa settanta anni – a garanzia della pace tra i Popoli non può bastare più; questo è un dato oramai evidente. Eppure la pace tra i Popoli nell’Unione europea è innegabilmente un presupposto – seppure scontato – ma che nessuno può contestare, laddove pace e felicità appaiono nella nostra analisi valori strettamente collegati: l’uno postula l’altro, senza la pace – militare, economica, sociale – ovvero in periodo di crisi economica reiterata negli anni, disagio sociale, povertà e aumento delle disuguaglianze – non può esserci la felicità dell’individuo e men che meno della collettività. Come detto, appare possibile sostenere che la felicità nell’Unione europea è strettamente connessa alla condizione di pace, di giustizia e di solidarietà tra i Popoli.
E questo è un primo punto fermo di partenza di queste breve riflessioni, un “focus” appunto…
Inoltre, non può esserci felicità se all’individuo (ma anche alla collettività e soprattutto alle minoranze) non è riconosciuta e salvaguardata la sua dignità.
La dignità umana in quanto diritto inalienabile della persona.
L’applicazione sostanziale dei principi e valori testé citati costituiscono il fondamento del raggiungimento della felicità nell’Unione europea prima durante e dopo Brexit. Secondo questa prospettiva, la morale che si evince è che gli esseri umani sono felici se possono dare un senso alla loro vita e, ad esempio, rendendosi utili agli altri e alla collettività.
Vale la pena fare alcune ulteriori considerazioni della complessa problematica. Giacché non c’è dubbio che la realizzazione della “Brexit” si è dimostrata molto più difficile e complicata di quanto taluni pensassero.
Se è vero che “Brexit means Brexit” (cioè uscire dalla UE vuole dire lasciare la UE e così sia) – espressione ambigua ed intrisa di un genuino fine populismo – nel senso che va rispettata la scelta del popolo britannico, è vero parimenti che c’è ancora chi non riesce a comprendere con chiarezza cosa significhi concretamente quell’espressione, giacché, stante il caos generalizzato in cui versa il Regno Unito, l’uscita dalla UE non ha ancora, a tutt’oggi, un valore univoco per tutti. Per il governo britannico, per l’Unione europea e per i cittadini britannici e UE.
Non senza prima segnalare che anche dopo la chiusura della procedura di uscita, il
31 dicembre 2020, pur avendo le Parti negoziato faticosamente e stipulato un accordo per i futuri rapporti commerciali, (“EU-UK Trade and Cooperation Agreement”) le questioni, come si vedrà, non sembrano risolte con un evidente malcontento da entrambe le Parti. Il braccio di ferro tra UK e UE quindi continua.
Il Regno Unito dal 1° gennaio 2021, perdendo lo status di membro dell’Unione Europea è diventato sic et simpliciter uno Stato extra-UE, e pertanto, perdurando nel deal l’assenza di regolamentazioni specifiche in molte materie “sensibili”, si dovrà presumibilmente procedere “a vista” senza regole prefissate, in attesa di disciplinare in modo dettagliato i futuri rapporti.
Ciò perché, come si vedrà tra breve, l’accordo UE-UK scaturito dalla snervante e difficile negoziazione è una sorta di compromesso al ribasso. Come dire si è deciso di non decidere! Di codificare nell’accordo solo alcuni “dossier”, posticipando le materie più sensibili. Appare evidente che le relazioni economico-commerciali del Regno Unito con l’Unione europea (e quindi, semplificando, con gli altri 27 Stati membri) dopo circa mezzo secolo di interdipendenza e coesione sono pressoché integrate e (inter)dipendenti. In una prospettiva di lungo periodo è possibile che il Regno Unito si discosti parzialmente – ma non completamente – dalle politiche UE e possa optare per altre “alleanze” commerciali (USA, Cina, India ecc.), ma al momento attuale anche in occasione della guerra Russo-Ucraina non mi sembra che il regno Unito si sia discostato dalle scelte comuni europee e transatlantiche.
Secondo un sondaggio condotto da Ipsos MORI la gran parte dei cittadini britannici è scontenta di come è stata gestita la Brexit sin dall’inizio e, anche alla luce dei recenti sondaggi sulle esportazioni britanniche. Anche perché, nello specifico caso “Brexit”, occorre disciplinare gli “standard” comuni dei rapporti commerciali (e non solo) considerati i rapporti consolidati tra UK e UE e tenendo conto pure che la “special relationship” con gli USA (fortemente sollecitata dal Presidente Trump in un’ottica di anti-europeismo-atlantismo) è necessariamente da riconsiderare con diversi accenti e sfumature.
Democrazia e felicità costituiscono un altro “asset” fondamentale della presente analisi.
L’accordo tra l’Unione europea ed il Regno Unito il 24 dicembre 2020, anche definito “l’accordo della viglilia di Natale ad una generale valutazione del testo e delle clausole (EU-UK Trade and Cooperation Agreement) è l’espressione tangibile e incontestabile che le Parti non hanno ammorbidito le loro posizioni e non hanno trovato un punto di intesa nel merito delle questioni più sensibili. La questione non è quindi conclusa, anzi, è una questione ancora “aperta” da decidere una volta che la guerra Russo-Ucraina sarà conclusa..
Infatti, è facilmente prevedibile che nei prossimi tempi (rectius “anni”) il testo sarà ancora oggetto di importanti negoziati per risolvere le (tante) clausole vuote lasciate in sospeso. Si tratta essenzialmente di un testo raffazzonato prodromico a numerose modifiche e integrazioni che dovranno essere (ri)negoziate. Vi è poi un’ipotesi più di “fantapolitica” che di “realpolitik”: ipotizzare nel prossimo futuro, con un diverso governo, il (ri)avvicinamento del Regno Unito all’Unione europea – aspetto questo improbabile ma pur sempre possibile – dopo aver compreso e soprattutto “testato” nel medio-lungo periodo l’esperienza del recesso.
Ovviamente nel rispetto delle regole di accesso di nuovi Stati europei ai sensi dell’articolo 49 TUE.
Il Regno Unito, infatti, ove mai chiedesse di riacquistare nuovamente lo status di membro dell’Unione europea dovrà, senza alcuna agevolazione, rispettare la procedura di ammissione ordinaria che si applica indistintamente a qualsiasi Stato terzo “europeo” sebbene sia stato già membro UE. E questo approccio si dovrebbe applicare anche all’Ucraina che a quanto pare ha già formalmente chiesto di entrare
nell’Unione europea. E non per motivazioni politiche, bensì esclusivamente per profili giuridici non essendo prevista nei Trattati una procedura “d’urgenza” ovvero “semplificata”.
Non c’è dubbio che, se da un lato, il fenomeno Brexit ha fatto (ri)emergere profonde fratture tra gli Stati nazionali che compongono il Regno Unito minando la sua stabilità e coesione, dall’altro, una sorta di riappacificazione tra gli Stati UE sembrerebbe emersa proprio grazie alla incredibile guerra Russo-Ucraina.
Ma questo è un altro capitolo…