Da guerra aperta a guerriglia

La soluzione politica è di là da venire, avanza la soluzione militare, ora assortita dalla guerriglia. È nella tradizione delle formazioni minoritarie battere la via della guerriglia: agguati, attentati terroristici. Generare la paura nel campo avverso, non lo si può affrontare sul terreno, se ne ostacola la vita associativa portando la minaccia in seno alla società civile. La paura è un argomento convincente.

L’attentato di Gerusalemme è esemplare. I due terroristi – Carlo alla mano, Carlo è il nomignolo quasi affettuoso del mitra fatto in casa con gli scarti dei fabbri, impreciso quanto micidiale a breve distanza – montano sull’autobus alla fermata, uccidono e feriscono un certo numero di passeggeri, sono uccisi a loro volta. Le immagini mostrano gli altri passeggeri tentare la fuga, le forze di sicurezza, pare un soldato ed un colono armato, freddare gli assalitori. Sembra uno spezzone di Fauda, la serie Netflix, ed invece riporta alla memoria gli attentati del recente passato. Israele riteneva di averlo archiviato.

Le IDF spianano quel che resta al suolo degli edifici bombardati dall’IAF, compresi i grattacieli che lo Shin Bet vuole presidio di Hamas. I guerriglieri uccidono quattro soldati fra i 19 ed i 21 anni, sbucando dai tunnel evidentemente ancora intatti. La guerra a Gaza costa vittime ed insicurezza, persino nella capitale dello Stato. La guerra al terrorismo, la bandiera inalberata dal governo di destra, non restaura la sicurezza, provoca una nuova, e vecchia, forma di insicurezza.

Gli attentatori dell’autobus vengono dalla Cisgiordania, dai villaggi che le IDF presidiano da remoto e che ora si apprestano a punire, questa la credibile minaccia del Ministro della Difesa. In che modo? Anzitutto distruggendo le case dei loro familiari, così generando nuovi motivi di attrito anche presso chi è ignaro, fino a prova contraria, delle intenzioni omicide del congiunto. Se sono tutti terroristi, attuali o potenziali, nessuno si salva dalla repressione.

Si aggiunga il proposito di alcuni Ministri di annettere la Cisgiordania per esautorare l’Autorità Palestinese. Il controllo militare della West Bank, unito all’imprecisata amministrazione tecnica di Gaza, riporta la regione all’epoca precedente gli Accordi di Oslo. Alcuni li vorrebbero ancora validi, addirittura meritevoli di essere rispolverati con il riconoscimento dello Stato di Palestina. Altri li ritengono così caduchi da non essere menzionati neppure nei libri di storia. E d’altronde i firmatari Arafat, Peres, Rabin sono morti e non possono protestare per i fatti dell’attualità.

Il controllo della Cisgiordania significa farsi carico di altri milioni di Palestinesi. Abituati ad un certo grado di autonomia ancorché dimidiata dalla tutela israeliana, si vedrebbero ammessi alla completa subordinazione. Non è difficile immaginare la reazione degli abitanti e le rimostranze della comunità internazionale. Persino gli Stati Uniti direbbero con Ehud Olmert “enough is enough!”.

La soluzione politica è necessaria per dare uno sbocco non strettamente guerresco alla crisi. Macina vittime e ostaggi dal 2023, registra il primato dello scempio umano e materiale dalla creazione dello Stato di Israele. Per la soluzione politica occorrono dirigenti lungimiranti. Occorre porre fiducia nella diplomazia e tenere le armi come deterrente e non come orpello quotidiano da indossare assieme all’orologio. La via è stretta, è probabilmente la sola da percorrere.

A questo punto scatta l’appello all’Unione europea. Possibile che i Ventisette abbiano posizioni così disparate? Si va dal muso duro della Spagna (a due Ministri del Governo Sanchez Israele vieta l’accesso) alla sostanziale comprensione della Germania. Farci trovare impreparati rispetto ad una crisi che si trascina da decenni è colpevole. Il terrorismo ha una dimensione internazionale.  Il Mediterraneo orientale è il ridotto di casa nostra.

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