“Déclarations” e positivizzazioni dei diritti nel costituzionalismo moderno e contemporaneo. Parabole evolutive e problematiche di effettività dei diritti fondamentali

  1. Valore politico e forza giuridica della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, fra prospettive illuministiche e limiti del quadro economico

Fra i molti profili che meriterebbero di essere affrontati con riguardo al tema evocato nel titolo di questa riflessione, uno riguarda la modalità per affrontare la stessa questione della natura e della forza prescrittiva delle Déclarations des droits (de l’homme et du citoyen) (e più in generale delle Carte dei diritti), che i movimenti filosofici e politici europei avevano elaborato ed affermato a partire dal Settecento illuministico.

Sotto tale profilo, nell’approccio che, originariamente, aveva riguardato soprattutto la filosofia politica, ci si deve interrogare sui risalenti presupposti (soprattutto gius-naturalistici) di tali déclarations (des droits) e, più in concreto, se si dia (o meno) un fondamento assoluto dei diritti dell’uomo e se tale fondamento appaia obiettivo, certo o anche solo possibile.

Secondo altro, diverso approccio, fondato su una concezione non meramente normativistica del diritto, la questione si pone come ricerca delle manifestazioni indefettibili dei diritti dell’uomo e soprattutto come loro assunzione nei documenti giuridici fondamentali degli Stati, e come tutela giurisdizionale apprestata dagli ordinamenti affinché ne sia pienamente sancita la vigenza e con essa l’effettività della loro tutela.

Come si osserva, così, due diverse angolazioni di analisi e la loro integrazione risultano parimenti essenziali nella ricerca relativa alla fondamentale tematica che ora ci occupa. Le inevitabili limitazioni di spazio rispetto alle esigenze di analisi di un tema tanto ampio, così, imporranno un mero accenno alle questioni poste dall’approccio filosofico per concentrarci maggiormente, nel seguito, sul profilo giuridico-costituzionale e con esso sui profili della positivizzazione costituzionale dei diritti umani nel tempo (e nel vigente ordinamento costituzionale) e delle relative tutele.

Quanto al primo punto, è da osservare come le Dichiarazioni e le Carte dei diritti umani – nella risalente esperienza storico-politica britannica, in quella nordamericana e in quella francese – non potrebbero comprendersi qualora si volesse prescindere dal loro presupposto politico-filosofico, qualora cioè se ne volesse negare l’originaria fonte politica.

Secondo una opinione comune, tale presupposto deve cogliersi nella dottrina dei diritti naturali che si accompagna e si perfeziona nella teoria filosofica del giusnaturalismo moderno, trovando il suo massimo interprete in John Locke. Secondo tale orientamento di pensiero l’uomo, in quanto tale, ha dei diritti che, per natura, lo definiscono libero ed eguale. Nessuno – nemmeno lo Stato – può mettere in questione o alienare tali diritti, originandosi in capo ad ogni individuo, in diversa ipotesi, un vero e proprio ‘diritto di resistenza’ finalizzato con il suo esercizio a contestare e quindi superare ogni forma di gestione del potere politico incapace di garantire l’ambito dei diritti naturali dell’uomo.

Le origini risalenti di tale pensiero si riconducono alla filosofia greca e alla fede cristiana, la quale ha fondato nuovi presupposti antropologici a partire dalla propria concezione della persona umana come testimonianza e manifestazione di una naturalità liberata e proiettata nella trascendenza.

Per il giusnaturalismo, così, soprattutto nel corso del XVI e XVII secolo, esisterebbero diritti innati, inerenti ad ogni singolo individuo che lo Stato non è chiamato a fondare o attribuire quanto piuttosto a riconoscere e a ‘déclarer’.

Di qui la contestualità nello Stato liberale delle Dichiarazioni dei diritti che precedono e accompagnano l’affermazione del costituzionalismo liberal-democratico.

Con tali Dichiarazioni si ha il passaggio da una fase teorico-etica – nella quale l’uomo, gli uomini rivendicano se stessi quali centri delle cose, quali valori intrinseci, assoluti e astorici (in base ad un rivendicato stato di natura libero ed eguale) – ad una nuova fase, originale, in cui l’affermazione di tali presupposti etico-filosofici viene proposta come fondativa e legittimante un nuovo ordine politico nella forma di Stato che su tale ordine si basa: lo Stato liberal-democratico.

In tale prospettiva, nel sottolineare la centralità dei diritti naturali, le Dichiarazioni dei diritti, che precedono le costituzioni degli Stati dell’America del Nord (a partire dal 1776) e la Rivoluzione francese (del 1789), costituiscono il primo passaggio da una fase etico-politica di tali diritti ad una più propriamente giuridica.

In tema, tuttavia, non si può certo dire che i diritti contenuti nelle Dichiarazioni abbiano già hic et nunc un contenuto normativo e quindi azionabile nei confronti dello Stato da parte di ogni singolo individuo.

Piuttosto, tali Carte esprimono valori e ideali politico-filosofici che il nuovo Stato e la nuova classe egemone nella lotta politica e nei processi rivoluzionari – la borghesia – pone a base della propria azione politica, predisponendo nuove regole e nuovi organi in modo che il sistema di diritti e di libertà che ne risulterà previsto possa realizzarsi attraverso la rottura dell’originario potere statuale assoluto e la sua limitazione; è in questo senso che si parla di Stato legale e di Stato di diritto.

Proseguendo nel tempo, l’esperienza costituzionale inglese – a partire dalla Magna Charta del 1225 – e in modo diverso da quanto avverrà nelcostituzionalismo rivoluzionario francese (1789-1791) – consente di osservare come, accanto ad un processo di maturazione storica della percezione e della rivendicazione di diritti naturali nei confronti del Sovrano, si affermi un processo giuridico-costituzionale di ‘concessioni’ sovrane (costituzioni octroyées), le quali, nell’avviare il percorso del moderno costituzionalismo, costituiscono il risultato di un vero e proprio patto-contratto volto, fra i propri fini, alla regolazione di uno scontro fra monarchia ed altre forze sociali via via emergenti nella società civile.

Una sorta di smisurata fictio iuris, pertanto, assiste l’originario costituzionalismo, in quanto la figura giuridica della concessione, atto unilaterale del Sovrano che regola forme e limiti dell’obbligo politico (pactum subiectionis) del governato e al contempo del Sovrano-governante, in realtà, cerca di salvaguardare il principio di superiorità del Sovrano, dovendosi osservare che nella realtà essa (concessione) è piuttosto il risultato di un accordo bilaterale, di un contratto se non liberamente stipulato, almeno accolto da parte del Sovrano e del popolo. È in tal senso che si fa lucidamente osservare da parte di Norberto Bobbio come la teoria del diritto naturale, a ben cogliere, si caratterizzi come un atteggiamento ideologico.

L’ambiguità di tale teorica consisterebbe nel fatto che, mentre l’evoluzione storica degli individui procede per tappe successive da uno stato iniziale di schiavitù ad uno di conquista di spazi crescenti di libertà, tale approccio dottrinario opererebbe all’inverso, “ponendo all’inizio come fondamento e quindi come prius quello che storicamente è il risultato, il posterius” (N. Bobbio). In tale osservazione, così, si potrebbe cogliere come affermazione dei diritti naturali e teoria del contratto sociale costituiscono due teorie destinate ad incontrarsi per legittimare l’esercizio del potere politico.

Sotto tale profilo, la tesi lockiana deriva dal proporre come presupposto dell’esercizio legittimo del potere politico l’inerenza in capo ad ogni singolo individuo di diritti naturali non dipendenti dal Sovrano. Il Sovrano spiega e giustifica la sua presenza per consentire la massima esplicazione di tali diritti compatibili con la conservazione della pace sociale e della protezione all’esterno dello Stato.

Ciò richiamato, in estrema sintesi, della caratterizzazione delle Dichiarazioni dei diritti in base a presupposti giusnaturalistici e contrattualistici – che nel fondo non riescono a superare, come si è visto, una sicura ambiguità – se ne potrebbe concludere – sotto questo primo profilo – che esse costituiscono, prima ancora che un documento giuridico, la testimonianza di una funzione di ‘correzione progressiva’ delle modalità storiche relative al rapporto dialettico fra libertà e autorità, fra società e Stato. Pertanto, “la storicità, la circostanzialità delle Dichiarazioni, come si è osservato, consacrano quanto ai diritti concessioni o accordi piuttosto che diritti naturali assoluti o essenziali” (F. Battaglia).

Il che non vuol dire che tali diritti non emergano e non si facciano valere, sia pure lentamente. E ciò può affermarsi a partire dal Bill of Rights (1689) fino alla più recente Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (l0 dicembre 1947), la quale rappresenta la logica e ultima conseguenza di un processo che gradualmente ha portato alla certezza che l’intera umanità conviene e condivide una tavola comune di valori, che per tale motivo, possano ritenersi a buona ragione razionali in quanto universali.

In questo passaggio, l’affermazione dei diritti dell’uomo non costituisce più e soltanto testimonianza ed espressione di un processo evolutivo nella cultura politica e giuridica ma il punto di approdo per l’affermazione di un sistema dei diritti nel senso effettivo del termine, cioè diritti positivi ed effettivi e dunque rivendicabili e azionabili nei confronti di altri soggetti e dello stesso Stato.

In senso più tecnico, questa fase si registra nel corso della prima metà del secolo scorso attraverso l’integrazione delle Dichiarazioni dei diritti nel corpo stesso della Costituzione, che fino ad allora venivano contenute in Preamboli precedenti le Costituzioni in senso stretto, assumendone per ciò stesso contenuto normativo ed effettività, dal momento che tali Dichiarazioni divenute positivizzazione dei diritti fondamentali dell’uomo (e del cittadino) ne assumono le garanzie apprestate in generale dall’ordinamento costituzionale.

In tale fase evolutiva dalla teoria politica al diritto, se è indubbio che l’affermazione dei diritti dell’uomo acquista in concretezza – con le relative garanzie assicurate dalla Costituzione – non è meno vero che essa perda in universalità, dal momento che il processo di costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo, aderendo alle singole realtà costituzionali (con le relative culture e sensibilità), da una parte, seleziona l’ambito della tutela e del riconoscimento da operare ma soprattutto opera una distinzione nell’ambito dei diritti da positivizzare a tutto favore dei diritti del cittadino rispetto a quelli più generali – anche se talora meno puntuali – dei diritti dell’uomo.

Analisi diversa deve farsi con riferimento alla Dichiarazione universale del 1948, quando si rifletta alle difficoltà di predisporre un adeguato sistema di garanzie dei diritti dell’uomo a livello mondiale, in una comunità come quella internazionale in cui mancano tuttora e forse mancheranno ancora in futuro le condizioni per l’affermazione di un processo di monopolio legittimo della forza, alla stregua di quanto è avvenuto con la nascita dello Stato moderno.

Tale Dichiarazione deve cogliersi così come un punto di partenza per ulteriori sviluppi in materia di protezione globale dei diritti dell’uomo. Come si è fatto notare, essa “rappresenta la coscienza storica che l’umanità ha dei propri valori fondamentali nella seconda metà del XX secolo. È una sintesi del passato e un’ispirazione per il futuro; ma le sue tavole non sono state una volta per sempre scolpite” (N. Bobbio).

Con ciò si vuole osservare, da una parte, che l’enorme sviluppo della tecnica e il relativo impatto sulle società e sulle modalità nuove di espressione dei diritti dell’uomo (diritti della IIIa generazione) e, dall’altra, la espansività più che la restrizione delle aspettative di diritti sociali in tale contesto impongano di interrogarsi – (oltre e) più che sui fondamenti dei diritti dell’uomo – sulle modalità di proteggerli, di garantirli.

Le brutalità operate durante il nazismo e il fascismo, ieri, e nei regimi autoritari odierni (nello scrivere, fra le molte persone finite nelle maglie violente dei sistemi autoritari o anche solo illiberali, penso alla tragica solitudine di Giulio Regeni nelle mani dei poliziotti egiziani fino alla sua brutale soppressione) rendono quanto mai convincente l’osservazione.

Prendendo ancora a prestito le lucide analisi di N. Bobbio, si deve osservare, in tal senso, che “non si può porre il problema dei diritti dell’uomo astraendolo dai due grandi problemi del nostro tempo, che sono i problemi della guerra e della miseria, dell’assurdo contrasto tra l’eccesso di potenza che ha creato le condizioni per una guerra sterminatrice e l’eccesso di impotenza che condanna grandi masse alla fame. A chiunque si proponga di fare un esame spregiudicato dello sviluppo dei diritti dell’uomo dopo la seconda guerra mondiale consiglierei questo salutare esercizio: leggere la Dichiarazione universale e poi guardarsi intorno. Sarà costretto a riconoscere che, nonostante le anticipazioni illuminate dei filosofi, le ardite formulazioni dei giuristi, gli sforzi dei politici di buona volontà, il cammino da percorrere è ancora lungo. E gli parrà che la storia umana, per quanto vecchia di millenni, paragonata agli enormi compiti che ci spettano, sia forse appena cominciata” (N. Bobbio).

Così ridimensionata ogni utopica credenza sul significato politico e sulla forza giuridica delle Dichiarazioni dei diritti (da quella francese del 1789 a quella dell’ONU del1948), un’analisi più pacata e più realistica imporrebbe di affrontare le modalità attraverso cui tali Dichiarazioni riescono a conseguire efficaci risultati attuativi.

Affermandolo con estrema sintesi, si può dire, in tal senso, che le strade sono differenziate operando in modo diverso e con diversi risultati con riferimento alle prime Dichiarazioni (in primis quella francese del 1789) e alla Dichiarazione universale del 1948. Quanto alla seconda, senza pretendere di operare un lungo elenco, si deve dire che le aspirazioni universali contenute nella Dichiarazione Universale del 1948 hanno svolto un significativo ruolo politico nel senso della promozionalità dei diritti dell’uomo a livello universale e nel senso dell’applicazione a specifiche problematiche che la comunità internazionale ha dovuto di volta in volta affrontare.

Fra gli atti più significativi, che sono stati diversamente recepiti nei singoli paesi (con trattati o altro) sono almeno da ricordare in tal senso: 1) la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950); 2) la Convenzione sui diritti politici della donna (1952); 3) la Dichiarazione-Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1963); 4) la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali (1960); 5) la Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio (1958).

L’insieme di tali atti, secondo un elenco inevitabilmente incompleto, rinvia ad una questione più tecnico-giuridica che è anche politica, relativa alla natura meramente programmatica per il diritto interno dei singoli stati dei diritti dell’uomo protetti attraverso tali Dichiarazioni-Convenzioni. La Dichiarazione universale e molte delle richiamate Dichiarazioni non costituiscono oggetto di veri e propri Trattati e quindi non producono effetti giuridici sul diritto interno.

In verità, la questione non si porrebbe per ordinamenti costituzionali come quello italiano, la cui protezione dei diritti (civili e sociali) dell’uomo non pone significativi problemi (soprattutto in tema di forme della carcerazione che sconfinano nella vera e propria tortura o in trattamenti inumani e degradanti, come sottolineato nella censura sancita nel caso Torregiani), benché non manchino richiami e condanne del Tribunale europeo dei diritti dell’uomo (Strasburgo) e di Amnesty International, quanto piuttosto per quegli ordinamenti in cui l’accoglimento come valore da proteggere della persona umana e dei suoi diritti non risulta tuttora culturalmente, politicamente e costituzionalmente conseguito. Per tutti, basti richiamare la persistenza della pena di morte in ordinamenti formalmente democratici, a partire dagli USA.

Qui assistiamo, come si vede, ad una evidente contraddizione secondo cui “rispetto alla tutela internazionale dei diritti dell’uomo ci troviamo oggi in una fase in cui là dove essa sarebbe possibile non è forse del tutto necessaria e dove sarebbe necessaria è meno possibile” (N. Bobbio). Una contradizione – questa –, come si vede, che ripropone la questione delle garanzie a livello internazionale dei diritti dell’uomo che può unicamente conseguirsi se gli Stati converranno e stipuleranno di istituire un Tribunale internazionale dei diritti dell’uomo, la cui giurisprudenza venga accolta nel diritto interno e costituisca vincolo concreto (e verificabile) per i governi dei singoli Stati.

Un problema di tipo diverso si pone per gli ordinamenti costituzionali che hanno recepito e garantito i diritti fondamentali dell’uomo. In modo articolato, da Stato a Stato, secondo le diverse previsioni costituzionali, ma comunque sul presupposto del loro generale accoglimento, i diritti fondamentali costituiscono – nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra – oggetto di tutela costituzionale, nel quadro più ampio di un ‘costituzionalismo a più livelli’ fondate su carte europee e sulla giurisprudenza delle relative Corti.

In questo senso, senza poter qui approfondire il tema è almeno da richiamare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, incorporata nel TUE, con la stessa sua forza giuridica, nonché la CEDU e la coraggiosa giurisprudenza fondata su di essa del Tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

In un simile concerto di giurisprudenze europee, la giurisprudenza costituzionale nei singoli paesi UE ha arricchito e consolidato la protezione costituzionale dei diritti fondamentali, portando a compimento, con l’affermazione di un principio di costituzionalità, l’originario Stato di diritto.

Problematiche certo non mancano sia con riferimento alla questione delle norme accolte come parametro di riferimento del controllo della costituzionalità delle leggi, sia, più in particolare, con riguardo alla nozione stessa e al contenuto dei diritti fondamentali (il cui concetto risulta talora vago e indeterminato quanto agli ambiti di estensione) e con riferimento alle procedure di azionabilità delle garanzie giurisdizionali.

Le questioni più in particolare si pongono – più che con riguardo alle libertà classiche e ai più consolidati diritti sociali – con riferimento alla estensione della protezione giurisdizionale ai c.d. diritti della IIIa generazione, come il diritto alla pace, all’ambiente, all’accesso universale all’acqua, all’accesso (parimenti universale) a internet, il diritto alla conoscenza.

Certo, è possibile, operando attraverso una interpretazione estensiva delle norme costituzionali, dedurre dal testo costituzionale tutte le sue potenzialità normative. Rimane altrettanto vero che sarebbe eccessivo attribuire ai padri costituenti una completa lungimiranza sulla evoluzione della società; come pure sarebbe certamente inadeguato per la cultura civile e politica contemporanea non proporsi una riflessione più adeguata e compiuta sulle nuove forme e i nuovi contenuti dei diritti dell’uomo nella società contemporanea alle soglie del nuovo millennio.

Una riflessione che si concluda con la integrazione della Carta universale dei diritti e con l’adeguamento dei singoli ordinamenti costituzionali in modo da apprestare in forme effettive ed efficaci – anche attraverso la protezione giurisdizionale dei diritti fondamentali – una più adeguata protezione della dignità umana, delle libertà e delle aspettative di serenità.

2. Dalle ‘Dichiarazioni dei diritti” fino alla loro positivizzazione e alla relativa tutela nel costituzionalismo contemporaneo.

Con l’affermazione del principio di sovranità popolare (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789) e della rappresentanza politica, nella sua evoluzione bisecolare, il processo di trasformazione dello Stato moderno, sia nella sua legittimazione democratica (con la fondazione di una democrazia di tipo rappresentativo) sia nelle forme della organizzazione politica (sulla base di un ‘nuovo’ principio di separazione dei poteri, alla cui elaborazione hanno lavorato i filosofi politici inglesi e successivamente quelli francesi), è approdato, con Montesquieu, a precise formule costituzionali a cui si richiameranno gli Stati europei e pluralisti al momento di rompere con le risalenti esperienze assolutistiche del potere politico.

Preparato dall’apporto fondamentale del pensiero filosofico e politico (prima inglese e poi anche francese) e da un inedito accordo fra la borghesia commerciale del tempo e i componenti del cd terzo stato, così, negli ultimi due secoli, con le Rivoluzioni borghesi, la forma dello Stato moderna assume una nuova veste, completamente diversa da quella dello Stato feudale, assoluto.

Nasce in questo modo lo Stato moderno, ispirato a princìpi liberal-democratici, e con esso nascono le nuove forme costituzionali della democrazia parlamentare; in tale quadro si afferma l’idea rivoluzionaria della legge quale espressione della volontà generale portata ad esistenza dai delegati del popolo in Parlamento e che per tale ragione si presenta come unico strumento di democrazia che non ammette controlli esterni sui relativi contenuti decisionali. Si tratta di una forma di Stato che per molti decenni rimarrà segnata dalle idee liberal-democratiche che ne costituivano la base culturale e sociale originaria e soprattutto dalla limitazione censitaria del suffragio (Stato monoclasse, secondo l’efficace qualificazione di Massimo Severo Giannini). Una forma di Stato che per questa specifica ragione non si era dimostrata idonea a resistere alle lusinghe totalitarie, che si accompagnarono con profonde trasformazioni autoritarie dello Stato dagli anni ’20 agli anni ’40 del secolo scorso nella quasi totalità degli Stati europei, tranne quello britannico.

Se dello Stato moderno si vogliono cogliere le dinamiche profonde, che lo hanno segnato nella sua discontinuità con la fase liberal-democratica della sua organizzazione statale e i regimi totalitari degli anni appena citati, occorre richiamare due principali idee guida e al contempo due culture politiche che hanno accompagnato il processo evolutivo del costituzionalismo moderno, affermando l’esigenza di ripensare ad una idea di Stato nuovo per la democrazia, allorché lo Stato totalitario sarà sconfitto in tutta Europa e sarà ricacciato dalle contrade dei diversi paesi quasi ovunque con una eroica lotta di resistenza, come è avvenuto in Italia.

Nell’ordinamento costituzionale italiano del 1947, più in particolare, tali idee fanno riferimento alla centralità della persona umana, alla stretta integrazione costituzionale fra libertà ed uguaglianza, e all’apporto fondamentale del lavoro come processo partecipativo e come garanzia costituzionalizzata dei diritti dei lavoratori nel quadro di un evoluto governo democratico dell’economia.

Nella sua versione contemporanea, in tale prospettiva, la democrazia costituzionale ha registrato una ulteriore, fondamentale, trasformazione dello Stato nella direzione della valorizzazione della partecipazione politico-partitica alla formazione della sua volontà (Stato di partiti) ed in quella della valorizzazione e della crescita dei compiti assegnati dalla Costituzione alla garanzia dei diritti e delle libertà, a partire dai diritti sociali (Stato sociale di diritto).

Alla base di questi nuovi ‘compiti’ dello Stato, ritroviamo un profondo cambiamento costituzionale consistente nell’assumere il principio di eguaglianza sostanziale, accanto a quella dell’uguaglianza formale, come base dell’azione dei pubblici poteri verso la società e verso i singoli individui.

In tal modo, cambiano in modo profondo fini e modalità di essere e di operare dello Stato, ormai non più guardiano esterno del mercato economico e del suo funzionamento, secondo il classico brocardo laissez-faire laissez-passer; al contempo, cambia lo stesso statuto dei diritti e delle libertà, la cui effettività dipenderà non più solo dall’esercizio individuale delle libertà, in uno scenario economico e sociale di tipo competitivo (ma anche asimmetrico fra capitale e lavoro), bensì dalle nuove funzioni cui lo Stato è chiamato per dare attuazione al suo programma di giustizia sociale e di eguagliamento formale e sostanziale dei soggetti.

L’individuo, così, non è più solo all’interno di un mercato che premia i soli soggetti forti e a fronte di uno Stato (che può e sa essere) oppressivo, come Hobbes ricordava nel suo Leviatano. L’individuo – ora divenuto persona in modo pieno – vede garantito il progetto e l’obiettivo dell’eguaglianza effettiva rispetto ai soggetti più forti nel mercato e nella società. In tal modo, lo Stato sociale diviene uno Stato sussidiario, la cui azione, in particolare, giova ai soggetti deboli, i quali, in assenza di un suo intervento, rischierebbero di vedere pregiudicata la pienezza della propria persona, dei relativi diritti e delle libertà, a partire dalla dignità umana.

Con modalità diverse, le Costituzioni del secondo dopoguerra si atteggiano in modo similare. In un simile quadro evolutivo, lo Stato costituzionale contemporaneo ha conosciuto la limitazione dei suoi poteri con modalità differenziate; da una parte, mediante l’assoggettamento dell’amministrazione e dei suoi atti al giudice amministrativo e dall’altro mediante l’assoggettamento del Parlamento e della legge alle Corti costituzionali. La giurisdizione come potere autonomo e indipendente dello Stato vede in tal modo pienamente riconosciuta la propria funzione al servizio di un progetto egualitario di soggezione di tutti e di ognuno alla legge, senza discriminazioni di sorta (che si tratti di censo o di potere economico non rileva). Accanto a tale garanzia, il significato profondo della giurisdizione risiede nella cultura della limitazione del potere dello Stato (Stato legale) quale massima garanzia dei diritti e delle libertà.

Tanto brevemente richiamato, sia pure in modo molto generale, delle tematiche della evoluzione dello Stato e del costituzionalismo, si possono richiamare in grande sintesi i passaggi fondamentali di questo processo evolutivo che muovono dalla formazione dello Stato costituzionale (liberale nella ispirazione ideologica, rappresentativo nelle forme politico-istituzionali della legittimazione politica del potere, borghese prima della sua trasformazione in sociale) fino alla razionalizzazione delle forme di governo registrate nel costituzionalismo contemporaneo, attraverso l’evoluzione dei singoli paesi nel corso dei due secoli da poco lasciati alle nostre spalle ma soprattutto a partire dagli anni ’20 del secolo scorso e poi, in modo più organico, con la previsione di controlli di costituzionalità delle leggi e con la introduzione di princìpi di rigidità nelle Costituzioni del secondo dopoguerra.

Nell’accostarsi a tali tematiche, rimangono comunque fondamentali da porsi i centrali interrogativi sui contenuti e l’effettività delle libertà e di cercare delle risposte convincenti e realistiche nella storia del costituzionalismo contemporaneo. Una storia costituzionale che, nel primo ventennio del nuovo millennio e nel bel mezzo di una turbolenza formidabile del processo di integrazione europea, ha visto consumarsi, con le cangianti idee sul rapporto fra libertà e potere, fra persone e Stato, risalenti categorie e modelli di legittimazione politica e di organizzazione del potere costituzionale, fino alle forme accolte nel costituzionalismo del secondo dopoguerra.

Si tratta di formule evolute, come si ricorderà in modo molto schematico, di razionalizzazione nella forma dello Stato e nella forma di governo che, al contempo, riguardano l’arricchimento del catalogo dei diritti fondamentali e la previsione di adeguati checks and balances volti ad evitare ogni rischioso sbilanciamento nel rapporto fra i poteri costituzionali (e in particolare nella forma di governo).

Tale processo di trasformazione, infatti, vede portare alle estreme, ragionevoli, conseguenze il processo di partecipazione politica, in unum con l’universalizzazione del suffragio e con esso legittimare (istituzionalmente) soggetti politico-comunitari, come i partiti politici che si sono dimostrati capaci – prima di implodere essi stessi – di democratizzare lo Stato con l’apporto del loro concorso plurale alla determinazione della sua volontà. È quanto rileviamo con la formula dello ‘Stato dei partiti’ o meglio ancora con quella dello Stato della partecipazione politica diffusa.

Un simile scenario evolutivo spinge ora a proporre alcune riflessioni di tipo generale che muovono dall’analisi della crisi di nozioni e di categorie interpretative fondamentali affermatesi nel costituzionalismo contemporaneo per procedere (nelle more di un auspicato indirizzo di congrue previsioni internazionali in merito) verso una lenta affermazione di un (quasi) costituzionalismo sovranazionale europeo, che è tuttora statu nascenti ma che pare destinato a porsi come una trasformazione inevitabile – se non perfino necessaria – dei costituzionalismi nazionali, a fronte del processo attualmente raggiunto dal processo di integrazione delle economie nazionali.

La complessa architettura del costituzionalismo contemporaneo alla quale si legano gran parte delle presenti conquiste in termini di civiltà e di giustizia sociale e le concrete aspettative in termini di organizzazione dei poteri e di tutela dei diritti, agli inizi del nuovo millennio, così, sembra scomporsi e incrinarsi sotto l’influsso di una moltitudine di forze e di tendenze che fanno vacillare quelle forme e quei modi di essere dello Stato costituzionale apparsi mezzo secolo fa saldi e definitivi perché appropriati a una democrazia concepita come patrimonio di ciascuno e di tutti.

Lo ‘Stato sociale’, lo ‘Stato sovrano’, lo ‘Stato dei partiti’, forme storiche di questo Stato e di questa democrazia che coniuga libertà ed equità, pluralismo sociale e pluralismo dei poteri, manifestano attualmente i segni della loro decadenza, coinvolgendo inevitabilmente nel disfacimento quei princìpi e quei valori che rappresentano l’impalcatura di tutto il costituzionalismo del Novecento e che solo in queste forme contemporanee della statualità riescono a trovare il loro naturale quanto armonioso campo di espansione.

La crisi dello Stato contemporaneo si rivela, in tale quadro, profonda e complessa perché variegata e poliedrica; una crisi di forme e di sostanza, di strumenti e di obiettivi, di princìpi organizzativi non sempre rivedibili e di princìpi ispiratori inderogabili. Questa discrasia tra mezzi e fini che corrode la schiusa architettura ideale del costituzionalismo democratico è particolarmente evidente e intensa nel processo di destrutturazione del Welfare State, in atto ormai da più tempo in presenza della crisi fiscale degli Stati e dei relativi fenomeni economici e sociali connessi alla globalizzazione.

La crisi dello Stato sociale, in tale ottica, non rappresenta solo il fallimento di un modello politico dell’economia che vanta il merito storico di aver consentito l’equilibrio sociale in regime capitalistico. Tale crisi rappresenta anche l’appannamento di uno Stato costituzionale che assume la dignità dell’uomo come suo punto di partenza storico-culturale e che fissa una scala di valori dominanti come base di questa dignità e come linea direttrice del proprio sviluppo funzionale. Con la crisi del sistema economico e del mercato del lavoro, così, lo Stato sociale – speranza per molti, mezzo di sopravvivenza per tanti, privilegio per alcuni – rivela una sua caratteristica molto importante, quella di una forma di Stato che proclama i diritti di tutti ma senza poterne sempre assicurare l’effettività.

Se la crisi dello Stato sociale tende a destrutturare l’ampio e complesso sistema creato da un costituzionalismo in cui la linearità della tradizione liberale si fonde con la complessità della democrazia sociale, la crisi dello Stato-Nazione che a esso si accompagna sembra invece piegarlo dentro un ordine di cose e di tendenze che sfuggono alle sue regole e alle sue determinazioni. Nell’era della globalizzazione in cui il tutto domina sulle parti, l’universale sul particolare, tra nuovi luoghi e nuovi detentori del potere, si disperde, infatti, quell’attributo essenziale della personalità politico-giuridica dello Stato che lo rende istanza originaria, indipendente e suprema.

La sovranità, grande sfida delle Rivoluzioni liberali, diventa, così, l’incommensurabile miraggio del nuovo millennio, la copertura rituale di uno Stato che, privo delle sue fondamenta, della sua autorità, si trasforma in ‘non Stato’, in mero elemento costitutivo di una realtà in continua evoluzione. Intaccata l’essenza stessa della statualità, questo vecchio sovrano ormai senza scettro si destruttura e si sfalda avviandosi verso un lento e forse inesorabile declino, sollevando molti dubbi sulla sua capacità di riassorbire la crisi.

Questo processo erosivo del potere sovrano che scandisce la crisi dello Stato contemporaneo e del costituzionalismo che l’ha prodotto, comincia storicamente con la perdita del governo statale dell’economia. L’esaurirsi dell’economia nazionale e il sorgere di economie aperte oltre i confini nazionali, con elevato grado di dipendenza dal sistema economico mondiale, infrange, infatti, la storica coincidenza tra mercato e territorio dello Stato, finendo così per privare quest’ultimo di un vasto ambito statale d’intervento.

In tale prospettiva, la lunga e contraddittoria esperienza delle Costituzioni del Novecento, iniziata con la riappropriazione dell’economico da parte del politico, sembra chiudersi, così, sulla scia di uno Stato sempre meno sovrano, sempre più spettatore inerme e cassa di risonanza dei grandi processi economico-decisionali che si snodano al di là dei suoi confini geopolitici e che gli sfuggono con il loro dinamismo, sovrastandolo con la loro portata e rendendo incerti i suoi processi decisionali. Nato per governare l’economia, insomma, lo Stato sociale finisce per piegarsi alle sue esigenze, alle sue tendenze, alle sue forze; forze che si sommano e si fertilizzano, determinando la crisi dello Stato sovrano e, con esso, anche il disfacimento del mondo democratico, delle sue istituzioni, delle sue leggi.

All’affermazione di un simile processo di mondializzazione dei processi economici corrisponde una crisi della sovranità degli Stati contemporanei surrogata dalla crescente centralità del mercato e del contratto come categorie paradigmatiche di un nuovo costituzionalismo conservatore, che si presentano come tali da fondare nuove interpretazioni delle stesse norme costituzionali che erano state poste alla base delle modellistiche di Stato sociale nelle Costituzioni del secondo dopoguerra. La latitudine della crisi in cui si dibatte lo Stato contemporaneo come Stato costituzionale e democratico sospinge, dunque, non solo a ripensare i topoi classici del costituzionalismo, ossia le garanzie imposte costituzionalmente a tutti i poteri a tutela dei diritti fondamentali, ma anche a ripensare ad un costituzionalismo sganciato dai suoi luoghi classici, vale a dire disgiunto dalla statualità.

Se la destrutturazione della sovranità e la decadenza del Welfare hanno alterato profondamente i tratti originari dello Stato costituzionale, occorre altresì rilevare che tale diminuita capacità d’intervento e di controllo dell’economia finisce per privare partiti e parlamenti dei “tradizionali bersagli verso cui dirigere i loro colpi per indirizzare e correggere la crescita economica sulla base di interessi e visioni del mondo non prettamente economicistiche”, accentuando, così, agli inizi della nuovo secolo, quella crisi degli attori e degli istituti della rappresentanza politica nella quale è possibile leggere anche il declino dello Stato contemporaneo come ‘Stato dei partiti’ e del modello di democrazia partecipativa che ne sta alla base.

Ripercorrendo i sentieri di una storia ormai secolare, così, non è difficile comprendere che i partiti politici hanno rappresentato il presupposto dello sviluppo democratico della società, avendo ‘educato’ quest’ultima ad aggregarsi per esprimere le proprie domande e a organizzarsi per entrare nello Stato, e che spesso la ‘democrazia dei partiti’ si è trasformata in una ‘democrazia per i partiti’, che li vede fare del Parlamento una cassa di risonanza di dinamiche e di decisioni politiche assunte al di fuori delle sue aule, occupare le istituzioni dello Stato e utilizzare le sue risorse ai fini del conseguimento del consenso secondo logiche ‘pigliatutto’ che esulano dai canoni classici dell’agire partitico e minano, con la capacità programmatica degli stessi, quella stessa legittimità politica che li aveva resi pilastro portante della democrazia costituzionale pluralista.

Strutturalmente inadeguati a rappresentare e a mediare i nuovi conflitti e i nuovi clevages della società post-industriale, i protagonisti assoluti della democrazia rappresentativa di questo secolo, gradualmente, smettono di essere i detentori esclusivi della funzione di raccordo tra Stato e società. Tale funzione finisce, infatti, per essere talora superata, talora compressa, tanto sul piano delle domande sociali, che spesso trova canali di democrazia quasi diretta, quanto sul piano dei processi di formazione degli orientamenti collettivi che, sempre più basati sulle immagini e sui messaggi diretti di una politica mediatizzata e personalizzata, si allontanano dalle forme e dagli strumenti tradizionali della comunicazione e dell’agire politico. Tendenze ‘plebiscitarie’ e tendenze ‘pubbliche’ della democrazia, insomma, che scardinano il monopolio partitico della rappresentanza degli interessi e sollecitano processi revisionistici delle loro identità e del loro agire. Tali processi ridimensionano, ma non annullano, gli spazi di quei partiti che in modo più o meno adeguato hanno rappresentato per mezzo secolo l’impalcatura materiale dello Stato costituzionale, schiudendo, in questo scenario di inizio millennio, nuovi, quanto ambigui, orizzonti per la democrazia. Mutate le condizioni politiche, economiche e sociali del secondo dopoguerra, è difficile stabilire quanta parte resti di quello Stato del pluralismo politico commisurato a una “democrazia che per essere politica e soltanto politica non fu economica e per essere borghese e soltanto borghese, nonostante la forza numerica dei partiti socialdemocratici, non fu popolare”. La crisi della sovranità, la decadenza del Welfare, il ridimensionamento del Parteienstaat, infatti, hanno alterato profondamente i tratti di questa forma di Stato e di questa democrazia con ovvie ed evidenti conseguenze per il positivo perseguimento delle finalità statali, per il reale funzionamento delle istituzioni formali, per l’effettiva realizzabilità delle libertà individuali e collettive.

Condividi:

it_ITItaliano

Prenota i corsi

Compila il form scegliendo il corso a cui vorresti prenotarti.

Riceverai una mail con tutte le informazioni del corso da te scelto.